La “Cirrosi sconfitta”: una favola moderna

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Redazione

Recentemente un comitato internazionale di esperti ha pubblicato un documento che ufficializza il cambio del nome della “Cirrosi Biliare Primitiva” in “Colangite Biliare primitiva” mantenendo l’acronimo PBC.

Dall’inizio della storia di questa malattia la questione del suo nome ha assunto sempre una natura rilevante. Già dagli anni ’60 medici e pazienti ponevano l’accento sulla grossa inaccuratezza della parola “cirrosi” nella definizione del quadro patologico. Tale termine è sempre risultato quantomeno “scomodo” per le giovani pazienti  vista la frequente associazione che il termine “cirrosi”  ha con la patologia alcolica.   D’altra parte anche la definizione clinica risulta inappropriata: infatti,  si notava come un elevato numero di pazienti era ben lontano dallo stadio patologico di fibrosi avanzata, riconosciuto come cirrosi. La cosa risultò ben più evidente alla fine degli anni ’80 con l’introduzione nella pratica clinica del dosaggio degli anticorpi anti mitocondrio, test che rendeva più precoce la diagnosi e dall’introduzione, nello stesso periodo, dell’acido ursodesossicolico, farmaco che ha stravolto la storia naturale della malattia. Da quel momento circa 2/3 dei pazienti con diagnosi di PBC ed in terapia con UDCA avrebbero avuto una sopravvivenza simile a quella della popolazione generale e soprattutto non avrebbero sviluppato mai la cirrosi!

Questi dati hanno reso evidente, già cinquanta anni fa, la necessità di cambiare il nome di questa malattia. Tuttavia, nonostante alcuni tentatavi effettuati, il nome cirrosi biliare primitiva ed il suo relativo acronimo PBC, sembravano essere ben radicati nel linguaggio medico comune, rendendoli difficilmente sostituibili.

Nel 2014 nel corso di un corso monotematico proprio sulla PBC svoltosi a Milano, i rappresentanti di alcune associazioni di pazienti provenienti da Regno Unito e Germania chiedevano a gran voce il cambiamento del nome della patologia per eliminare la stigmata e gli svantaggi che la parola cirrosi arrecava ai malati affetti da questa patologia nel corso della loro vita quotidiana.

A partire da quel momento un intenso sforzo prodigato da esperti internazionali ha prodotto i suoi risultati. A novembre 2015 veniva reso ufficiale al mondo scientifico il cambiamento del nome della patologia a “Colangite Biliare Primitiva”, il lieto fine di una battaglia cominciata 60 anni fa.

L’epidemiologia di una malattia rara

La PBC è una malattia rara ed i dati sulla sua prevalenza nel mondo, secondo gli ultimi report pubblicati su Orphanet, dicono che colpisce 2.1 abitanti su 10000. Tuttavia i dati epidemiologici disponibili sono pochi e di bassa qualità, come spesso accade per le malattie rare. Negli ultimi cinque anni sono stati pubblicati due lavori di revisione che hanno utilizzato dati provenienti da diversi studi in diverse regioni del mondo, mostrando un’ampia differenza tra le diverse zone analizzate. Gli autori concludevano, in entrambi i casi, per una variabilità dovuta ad una differenza nell’accesso alla diagnosi ed alla terapia piuttosto che ad una reale differenza di prevalenza ed incidenza nelle regioni in studio. Anche i dati epidemiologici italiani pubblicati sono pochi e mostrano una prevalenza che si attesterebbe tra i 12,740 ai 13.207 in linea con quella pubblicata da Orphanet. Questi dati tuttavia derivano da una stima indiretta evinta dai registri amministrativi di malattia della Regione Lombardia riferiti al periodo tra il 2000 e il 2009.

Vecchia malattia, nuovi rimedi.

Nonostante gli enormi passi avanti fatti nella gestione della malattia con l’introduzione dell’UDCA, dal punto di vista terapeutico si è fermi al 1987, quando proprio l’ursodesossicolico fu proposto per PBC. Fino a qualche mese fa, infatti, non c’era ancora un rimedio di testata efficacia, alternativo all’UDCA. Alla fine dell’anno scorso sono stati però pubblicati i risultati del trial POISE, studio creato per verificare l’efficacia di un nuovo farmaco nei pazienti con PBC non responsivi o intolleranti alla terapia con UDCA: l’acido obeticolico (OCA). L’OCA è un derivato dell’acido chenodesossicolico con l’aggiunta di un gruppo etile, sintentizzato dal Prof. Pellicciari a Perugia nel 2000. L’OCA ha una funzione differente dall’UDCA: è in grado di legarsi con elevata affinità ad un recettore nucleare,  (Farnesoid X Receptor o FXR) riducendo la sintesi degli acidi biliari a livello delle cellule del fegato e riducendone l’assorbimento e quindi aumentandone l’escrezione a livello delle cellule intestinali. Proprio questo meccanismo alternativo lo rende un farmaco adatto ad essere aggiunto alla terapia con UDCA aumentandone l’efficacia. In questi termini è stato testato nel trial POISE al dosaggio di 10 e 5 mg, con l’obiettivo di valutarne l’efficacia nel ridurre la fosfatasi alcalina a livelli inferiori ad 1.67 x il limite superiore di norma e del 15% rispetto al valore rilevato prima dell’inizio dello studio. L’obiettivo è stato raggiunto nel 47% dei pazienti. L’unico effetto collaterale registrato è stato il prurito. Attualmente il farmaco è stato approvato negli Stati Uniti, mentre in Italia è ancora in fase di studio attraverso un trial di conferma disponibile in alcuni centri terziari.

L’OCA non è la sola novità disponibile nei pazienti non responsivi alla terapia con UDCA. All’ultimo congresso che si è tenuto ad Amsterdam ad Aprile 2017, sono stati presentati alcuni dati interessanti tra cui uno studio francese che ha mostrato l’efficacia dell’associazione con farmaci ipolipemizzanti, i fibrati.

Prof Pietro Invernizzi

UOC di Gastroenterologia

Azienda Ospedaliera San Gerardo

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